Slevin Aaron Photography |
Non sono mai stato un colosso in fattore di donne, questa
verosimile faccenda fatta di occhi, sorrisi, sudore, mani, corpi, angosce, urla
e serotonina usciva fuori dai ranghi, quasi sempre dopo un anno e mezzo, in un
ondeggiare di conclusioni a corrente alternata. Il tempo, alla fin fine,
potrebbe risultare un allocco, ma diciamolo, dopo un po' un certo appeal mi è
sempre sceso. Mi davo, in sostanza, degli ultimatum uni personali, dei diktat
da sabotatore della mia esistenza pucci pucci. Ecco, come quelle volte lì:
Marta, Arianna, Viola e la pre-raffaellita. Chi cazzo è la
pre-raffaellona, raffaellita, fallita...? Va bene, non esiste. Comunque, il
filo rosso che collega e collegava le mie relazioni è sempre quello e ad
libitum: corteggiamento, sesso, sesso, amore, dichiarazioni, intenti,
escursioni a vario raggio, convivenze, progetti e tragedie. Potrebbe essere un
elenco ancora più lungo ma lo finiamo qui. Il nocciolo concreto si richiudeva
molto spesso nell'ottica del mio inconscio dove esso si ribellava alla
progettualità di coppia: cosa che si prolunga, ahimè, anche attualmente.
Ricordo, difatti, mal volentieri, quelle volte in cui la relazione dovrebbe
essere allo spasimo, dentro uno zenit stellare, ma il qui presente assente si
adoperava alla stregua di un terrorista popolare del thanatos; una gloria per
il falso sé di questo meschino maschio inconscio.
Alla faccia, alla faccia di una cosa che non so esprimere. Ho citato Marta, Viola, Arianna, ecc, ecc… e dimentico Ester. Conobbi questa solare e ingenua valdostana in una di quelle feste conviviali che si tengono parecchie volte l'anno a Golgogna. Sì, miei cari, abito in questa città da circa tre anni e mezzo e devo sincerarvi che ho intrapreso un salto di crescita personale rispetto altri luoghi e non mi riesce per ora di lamentarmi. No? Dovrei farlo? Ne sono capace, lo so. La mia apparente calma, accompagnata da questo adulto silenzio godereccio, trova fondamento e nutrimento da sottilissime bio energie che sento sotto i piedi e mi ficcano in testa leggiadre sensazioni di non opposizione alla noia, alla nausea, all'abitudine. Non mi sto infilando in discorsi da quattro soldi sulla new age, sullo yoga, la meditazione e nemmeno sul destino. Potrebbe essere pericoloso e controproducente. Tutto quello che leggi (divagazione) è frutto di un sincero approccio con la delicatezza delle lettere e il suo potere, se vogliamo anche, occulto. Sì, le benevole e crogiolanti bio energie. Ma andiamo avanti con Ester. Bighellonavo con Alessandro, un mio amico, alla festa conviviale. Mucchi di genti fumava, beveva, parlava divertita alla ricerca del divertimento ultimo, senza fine. Cercavamo una stupida birra per intrattenerci e spezzare l'impatto granitico da nuovi arrivati. La mia fervida psiche si aspettava immense pinte ghiacciate servite da scattanti e simpaticissimi barman ma niente di tutto questo: file interminabili, tre punti beverage e un leggero fastidio alla fronte, forse dovuto a leggere gocce di sudore che mi recavano uno leggero strazio, una mezza tortura del mondano progresso fintamente godereccio. All'occorrenza Alessandro tergiversava proponendomi discorsi in cui infarciva filosofia ed esistenzialismo. Acconsentivo alla farcitura, pensando sempre al probabile sorriso di un barman e, quindi, uguale, - datemi una cazzo di birra - ma disfacendomi l'armonia del divertimento. Divertimento? Alla fine, dopo mezz'ora di nulla, decidiamo di buttare la nostra perplessità su alcuni bicchieri di vino rosso acquistati da alcuni ragazzi in vesti alquanto gaie. Una, due, tre alzate di gomito e il tramonto sulla festa si comincia a colorare di rosso, arancione, tutto prende costanza, forma: una culla in un vespro, in un tormento dolce.
Inaspettatamente e in controtendenza alla mia salubre
condizione di balanzone ammanicato tra la folla e Alessandro, incontro lei, sì,
lei. Vestita come una ragazzina dallo stile leggermente alternativo e un viso
arrossato da troppo giorno. Rimango su un blocco di strada aspettando
l'affermazione, la frase del secolo per innovare lo spazio tempo, per indurmi
in tentazione ma sono imboscato, in me stesso. Lei, Arianna, la mia ex, reduci da oltre tre anni di relazione, arriva lì e sconquassa lo
pseudo convivio festaiolo con il suo ghigno comunicativo, leggiadro e a questo
punto mi perdo per poi ritrovarmi in: “Come siete seri? Eh, dimenticavo voi non
frequentate tanto il sole” disse. Vabbè. Rimanere allibiti sarebbe poco.
Immagino aridamente di sedermi, mi sento sommesso di fronte la sua compiacenza.
Alessandro risponde facendogli notare che il suo alquanto carino abbigliamento
simil liceale non è tanto in tinta tra i suoi rispettivi elementi. Lei risponde
che alla fin fine non è un problema, ci si diverte. Forse ha ragione, tutto
scorre, tutto continua. Mi ritrovo impiombato in questo idillio del contrario,
sfoggio la mia amara educazione, il mio self control, mi gingillo fingendo di essere
un uomo di altri tempi; mi affaccio anche sulla simpatia e ancor di più i
bicchieri di vino gonfiano il sipario di questo alquanto estasiante teatrino. “Ti vedi con
qualcuno?” dissi. “No. Ancora? Dai, Sergio! Che problemi hai?” disse. "Nessuno,
volevo solo saperlo, così” dissi.
Fingevo poco interesse ma dentro me covava un uovo di un piccolo Alien;
una smania di sapere al limite del paranoico. Uscivamo da due mesi, più o meno
intensi, di riavvicinamento o di non so come definirlo: solitudine, nostalgia,
qualche carezza, litigi minorati, gelosie di carta pesta, manie? Tutto era già
bello che finito all'epoca, ma volevo ancor essere il suo Lancillotto con gli
stivali più unici degli altri, lei invece ancora tergiversava su uno strano divertimento
da torre di vedetta, aspettando la luna nuova e che la vecchia nebbia padana e
pungente alle narici si diradasse per presentarsi su nuovi orizzonti. Come sempre
la nebbia non vi sto qui a indicare dove andò a infilarmisi, ma siete lettori
attenti e quindi capirete. Siete affabili, lo so.
John Everett Millais - The Long Engagement (1859)
John Everett Millais - The Long Engagement (1859) |
Scrivevo di nebbia e odori pungenti, elementi pregnanti e basilari per la vista bucolica oltre la città di Golgogna. Suddetti tasselli fuori una certa ottica urbana mi hanno spesso rievocato il deserto o un deserto, la malinconia dei giorni uggiosi; e queste sensazioni accostabili all'immaginario, al mio, sono plasmati in una certa forma e forse continueranno a esser così, non saprei, ma a volte sono terribili e hanno il volto dell'abbandono. Salutammo con Alessandro la pulzella e andammo alla ricerca di noi stessi nel marasma del gomitolo festante. Giocolerie s'incontravano ludicamente sbilenche, scambi di sguardi alimentavano la nostra presenza in quel luogo, odore di hashish, bambini, genitori, cibi vegani, arrosto. Fu approssimativamente qui, tra ripetuti bicchieri e chiacchiere che scambiai le mie prime parole con Ester. Cercavamo entrambi da bere in una delle tante bancarelle artigianali ma era finito tutto e proprio su questo inconveniente approcciammo una timida conversazione: “É finito tutto, caspita” dissi. “Sì, è vero” disse lei. “Come si fa?” dissi. “Beh, se vuoi ho delle birre nello zaino” disse. “Ah, benissimo. Scusami, ma come ti chiami? “Ester!” rispose lei con il suo inconfondibile influsso francofono. “Ma sei italiana?” le chiesi incuriosito. “Sì, no, cioè sono nata in un paesino vicino Aosta”. Leggermente brillo, galvanizzato dalla sua aria gentile e dalla sua palpabile voglia di conoscermi le proposi di continuare la festa insieme. Da quel momento continuammo a vederci per mesi, alternando periodi di viaggi, visioni, sincera passione con tasselli dove, per personale accanimento, ci si allontanava per ritrovare “i nostri spazi”, colmati da frequenti e burrascosi riavvicinamenti. Peccato, direi oggi.
Era e fu, dopo, un periodo molto particolare della mia vita,
dove mi ritrovavo, spesso e malvolentieri (?), senza un impiego e alla ricerca di
una sistemazione. Tuttora la situazione non è che sia cambiata così di netto o
verso quali splendidi orizzonti di gloria. Mi ritrovo nel giorno di Santo
Stefano in casa completamente da solo, divorando ascolti musicali, leggendo “Cose
delicate che ho affrontato dall'analista” di Matthew Klam e un saggio
sull'immaginario alchemico su Jung, per poi dedicarmi a lunghe passeggiate
fagocitato da personali aperitivi a base di birra o vino bianco. Forse tutto ciò
non è un racconto, né un romanzo ma delle semplici memorie perpetue per un
esercizio di esorcizzazione del mio quotidiano. A richiesta dispenserò le mie
movenze, i miei scatti senza un significato alcuno. Polarizzerò la mia polvere
di stenti, dove accudirò una mangiatoia intriso di bellezza etilica e con la
fausta stupidità del folle consapevole, riderò sulle mie disgrazie. A volte,
mentre scrivo, ho la sensazione, come quando passeggio spasmodicamente, di
attraversare un non luogo polare, polveroso e freddo. Scrivere è un lento
meditare ma se la sua passione è attanagliata da un marmoreo filo spinato,
consegnando la nostra virtù e volontà a un astronauta persosi nel cosmo, la sua
soave attività si trasforma in un gelato nelle mani di un clown decaduto steso
al sol leone.
Datemi in pasto ai pesci tropicali, qui fa troppo freddo.
Assaporare le fatidiche gioie dell’amore occidentale mi sfianca e assaporare
questa notte, che sa ancora di donna, di Ester, mi rende malinconico. Sa ancora
di parole, di cascate di parole, di pietre incastonate nel cemento del foglio o
su un albero poco cresciuto. Sta qui il mio divagare, da una parte un piccolo
alieno arguto che mi boicotta e dall’altra una volontà poco lucidata,
consapevole di essere sempre presente nel gusto amaro di farla franca.
John Everett Millais - Il Penseroso (1887) |
Dissi una sera a Ester che quello che ci dicevamo a vicenda andava anche bene. Era finita, anche se le nostre insicurezze non riuscivano a dimostrarlo del tutto. Abbandonarsi quasi completamente, prima di congedarsi per sempre sulla porta di casa sua, dopo le vacanze di natale, denotava un volersi ancora bene, un volersi ancora vicini. “Dove vai? Resta ancora con me. Non vedi che fa freddo?” disse. “No, devo andare. Basta, non sto più bene qui.” dissi. “Dai, ti prego rimani ancora un po’. Non voglio farti male. Lo sai ho toccato un altro uomo, è per questo. Noi ci conosciamo nel profondo…” disse. Al solo pronunciare del verbo toccare, alla sua coniugazione in “toccato”, brividi profondi gelarono il mio già equilibrio in panne. Cosa vuol dire in questo ambito linguistico “toccato”? Cazzo! Hai toccato un uomo per la prima volta? Gli hai toccato il membro in erezione? Gli hai toccato la collezione di penne a sfera? Gli hai palpeggiato la malinconia? Misteri della fede gastrica e di Golgogna, questa città. Me ne andai e scomparvi, per settimane.
Come vada, è sempre andata. Come sempre, come mai. L’eterno ritorno della palude d’oro in cui sguazzare è sempre curioso, ti vive dentro come un virus. Ma la curiosità si fermava sulle rispettive esperienze, l’ho sempre fatto. Non era per forza un accanirsi, come poteva sembrare, ma una voglia di dare senso alle cose, al contesto. Che miserabile scopo può avere questo andare avanti e indietro? Ce lo potremo mai spiegare? Allo stesso tempo chi sono io per mettere giù quattro parole sprecate già da qualcuno? Infine? La risposta sta nel coraggio e nella volontà del deflagrare l’urgenza delle proprie istanze. Ester scomparì, come le altre. Come è ritrovarsi nulli quando una donna ha detto “addio”? Continuare, protrarre inutili domande da scolaretto infarcito di filosofia spicciola da bar intellettualoide? Ecco, fermati, barricate. Dovrei smetterla d’incoraggiare questo ometto impavido di brutture e battute mediocri, di storture grammaticali e morfologiche, questo “uomo senza qualità” che, dopo le varie vicissitudini di cui sopra, si ritrova alla veneranda età - di non stiamo qui a dirlo - senza lavoro o quasi, senza una donna o quasi, con la voglia di scappare dalla casa in cui vive e - udite udite, udiamo udiamo - con soli quattordici euro nel proprio conto per circa dieci indimenticabili giorni avvenire. Ma stai sempre ad autocommiserarti? Non sempre. Scrivendo, però, ho la strana sensazione d’insieme come se me medesimo stia intrattenendo un rapporto speciale col proprio subconscio. È come ritrovarsi in una di quelle cabine per le fotografie formato tessera e scattarsi foto per puro diletto in una strana solitudine, possibilmente dopo essersi orgogliosamente agghindati per un rito onanistico di auto celebrazione vacua.
Tessere sbiadite e codici non così poi tanto cifrati attraversano la mia sorveglianza etica, non ingannandola, né tradendola così a dovere. Non ci si riesce a scalfirmi. Mi proteggo, io. La maggiore protezione mi deriva da una sottile o quanto meno raffinata interpretazione di apparenti appunti insignificanti, striscianti e al di fuori dello sguardo comune, ma pur sempre reali e oggettivi. La mia incespicante riflessione deriva da un fatto accadutomi pochi minuti fa. Mettiamo in chiaro un attimo le cose: dove cavolo sei? Cosa vuoi comunicare? Che ti è successo? Vi chiederete. Questo pomeriggio, risorto dalle fredde ceneri di un sabato ieratico, ripenso tra me e medesimo di auto organizzarmi una personale passeggiata, tra l’utile e il dilettevole, in centro qui a Golgogna. Tutto normale, da routine, quasi bello, meraviglioso. Tra un panino al formaggio di dubbia qualità, passaggio rituale contemporaneo allo sportello bancomat della banca di sfiducia e biblioteca accade qualcosa che presentivo vagamente, incontro…Incontro? Ah, sì, ci sono, suvvia. Ehm, ok, ci sono, mi ritrovo davanti… Ester. Ci vedemmo quella sera. Fu come entrare allo stesso tempo liberato e legato dentro un oceano divagante. Più che una prova da sensitivo in odor di macchietta, era un affaire, della serie “vorrei giocare a nascondino” con i miei stessi sommovimenti interni. Ma l’antenna era connessa sulla frequenza umanoide ma i dati erano sbiaditi e l’inghippo, e questa, credevo, era la ciliegina sull’Everest, stava su due direttive: ricevevo male i dati tramite la decodificazione, forse in avaria, o la strumentazione in toto era essa stessa nella stessa identica avaria, situazione. Interpretare era il focus, era il nucleo, i dati x si coagulavano sui frammenti del guscio, come granchio gentile, di un cuore coraggioso. La cieca razionalità mi sviava, pezzetti del qui assente ricevevano pacchetti all’apparenza orbi, in panne. Dalla casa madre arrivavano in stock calibrati tronfi aggeggi per congestionare la comunicazione con il lander che doveva lasciare il pianeta. Pezzi finiti, in sintonia con la risoluzione della debacle in funzione, qui e ora, interna. La penna, la mia, è una ed è servile, schiava, sottomessa al mio prendermi e prendervi per i fondelli. Non sono io, è un imbarazzo, preso forte e duro, dentro un organismo, in un pieno di questi artifici orifizi continuo nell'autoproclamazione.
John Everett Millais - Mariana In The Moated Grange (1850-1851) |