Non
inizierò questa recensione encomiando i soliti triti e ritriti
leitmotiv della Seattle d’Italia o della Milano del sud. No, per
favore, basta. Catania non è mai stata tutto questo o per lo meno,
tirando fuori questo argomento, non se ne faccia una puntata da
telenovela sudamericana perché quest’ultima sarebbe stata meno
imbandita, con molto meno insistenza, di certi stereotipi ripetitivi.
E va beh. Sono state soltanto, senza maldicenza, “leggere”
dicerie messe in giro da qualcuno, per metter su una discussione
tormentone per ragioni, diciamo così, turistiche, di hype visivo, di
vendita o di attrattiva su certe realtà musicali pur sempre
meritevoli. Ecco, non me ne frega ora e non me ne fregava neanche
prima, di codeste definizioni. Finalmente l’ho scritto e che
sollievo, ah. La figlia del Mongibello è stata un’altra cosa, una
cosa a sé. Come tutte le cose, bene o male, vissute o che vivono in
certi ambienti.
Da
queste poche ma importanti premesse vorrei introdurvi a un disco, un
nuovo disco, uscito a marzo del duemila tredici. Il disco in
questione è “Progressive In My House” dei deMANAGERS (scritto
proprio così, eh, non ci confondiamo). Questa chicca tutta sicula,
etnea, si fa per dire, esce per l’eclettica Edwood Records e per la
palermitana Succo Acido Label. Entrambe etichette di valore,
impegnate nella promozione di band al di fuori di classiche vetrine e
boriosi cliché sonori. Quest’ ultima, con la rivista Succo Acido è
anche impegnata nel campo dell’informazione culturale e di circuiti
artistici altri. Dategli un’occhiata, ne vale.
Bene.
La band registra tutto in modalità do it yourself e fa di necessità
virtù. Possiamo ammetterlo perché il disco ci porge all’udito un
circuito nostalgico. Un cerchio che si chiude: dei ricordi. Una
generazione? Comunque, quattro baldi giovani, orgogliosamente amici,
si ritrovano in una casa a registrare e l’avventura del disco
parte. Parte , e sì, ma da non molto lontano. Avete presente i
Clinic
alla loro prima avventura discografica? Il (Post) grunge e certo
noise ruvido (Progressive
In My House)?
I Brainiac
che suonarono in una calda notte d’estate anni novanta a Catania
(William
Blake Blues)?
Ecco, basta. E’ tutto qui, forse, quasi.
Infatti,
dicevo, quasi. Difatti, mi sa che uno o più di uno dei baldi giovani
sopracitati ha o aveva una certa predilezione per la break beat old
school, il dub o, forse, certa drum ‘n’ bass. Dai, sì, possiamo
dirlo: Elettronica. Sì, anzi, ne sono quasi più che sicuro. Ed
esattamente lo si evince, spero di non sbagliarmi, da pezzi come
Boogie
Bass e
Sharing.
Pezzi dove fa da padrone anche mister synth. Ma vorremmo
dimenticarci, azzolina, di certo punk-blues anni ottanta con accenni
garage (HeavyMetal
III)? E
ancora: del synth-pop sghembo e del post-punk magaziniano (A-ssolo)?
Certo,
è anche apprezzabile ammettere ,ancora, che tra le righe soniche del
disco si riesce anche a captare il lo-fi seminale dei Pavement
e non così proprio al volo, infine, l’influenza sotto le pieghe
della voce di certi Mark
Linkous
(Sparklehorse) e J
Mascis
(Dinosaur Jr) e permettetemi l’azzardo, gli Yuppie
Flu da
versante pop. Sentire la conviviale e divertita Pretty
Rose,
prego.
Voi
direte: tutto qui? Si,
proud Rock against the modern times.