venerdì 6 gennaio 2017

Arnold Dreyblatt - Nodal Excitation (1982) [Un commento]

Arnold Dreyblatt & The Orchestra Of Excited Strings (1982)


Eccitazione nodale. Fremiti. Un due tre, ascoltare, respirare, vibrare, suonare e di nuovo dall'inizio, ad libitum: la New York minimalista di seconda generazione, micro solchi di cerchi tonali e ruote dissonanti di ripetizione ostinata, battente. Rievocando La Monte Young, Alvin Lucier, John Cale - folgorato dal Dream Syndicate - e Glenn Branca aggirantesi, come flaneur un po' rigidi, tra i grattacieli ingrigiti e i fumi di una Grande Mela post moderna, un po' asettica, mentre mercanteggiano parole su corsi accademici, ricerche musicali, improvvisazioni estemporanee e happening sonori da (ri)organizzare ma con più passione. Baccanali freddi, spigolosi, dentro sotterranei di velluto. Ecco, che bel quadretto. Immaginario? Immaginifico? No. [Ascoltare sotto]. Ma sicuramente precursore nei suoi appena otto minuti e mezzo di musica come un'ara risonante un monito per il futuro, di un particolare avvenire - quello per un certo rock sperimentale - che, appena dietro l'angolo del tempo, rappresenterà riottosamente la decadenza dell'era reganiana e i flutti sonici urbani.




venerdì 6 maggio 2016

ESTER:RESET

Slevin Aaron Photography


Non sono mai stato un colosso in fattore di donne, questa verosimile faccenda fatta di occhi, sorrisi, sudore, mani, corpi, angosce, urla e serotonina usciva fuori dai ranghi, quasi sempre dopo un anno e mezzo, in un ondeggiare di conclusioni a corrente alternata. Il tempo, alla fin fine, potrebbe risultare un allocco, ma diciamolo, dopo un po' un certo appeal mi è sempre sceso. Mi davo, in sostanza, degli ultimatum uni personali, dei diktat da sabotatore della mia esistenza pucci pucci. Ecco, come quelle volte lì: Marta, Arianna, Viola e la pre-raffaellita. Chi cazzo è la pre-raffaellona, raffaellita, fallita...? Va bene, non esiste. Comunque, il filo rosso che collega e collegava le mie relazioni è sempre quello e ad libitum: corteggiamento, sesso, sesso, amore, dichiarazioni, intenti, escursioni a vario raggio, convivenze, progetti e tragedie. Potrebbe essere un elenco ancora più lungo ma lo finiamo qui. Il nocciolo concreto si richiudeva molto spesso nell'ottica del mio inconscio dove esso si ribellava alla progettualità di coppia: cosa che si prolunga, ahimè, anche attualmente. Ricordo, difatti, mal volentieri, quelle volte in cui la relazione dovrebbe essere allo spasimo, dentro uno zenit stellare, ma il qui presente assente si adoperava alla stregua di un terrorista popolare del thanatos; una gloria per il falso sé di questo meschino maschio inconscio.


 

Alla faccia, alla faccia di una cosa che non so esprimere. Ho citato Marta, Viola, Arianna, ecc, ecc… e dimentico Ester. Conobbi questa solare e ingenua valdostana in una di quelle feste conviviali che si tengono parecchie volte l'anno a Golgogna. Sì, miei cari, abito in questa città da circa tre anni e mezzo e devo sincerarvi che ho intrapreso un salto di crescita personale rispetto altri luoghi e non mi riesce per ora di lamentarmi. No? Dovrei farlo? Ne sono capace, lo so. La mia apparente calma, accompagnata da questo adulto silenzio godereccio, trova fondamento e nutrimento da sottilissime bio energie che sento sotto i piedi e mi ficcano in testa leggiadre sensazioni di non opposizione alla noia, alla nausea, all'abitudine. Non mi sto infilando in discorsi da quattro soldi sulla new age, sullo yoga, la meditazione e nemmeno sul destino. Potrebbe essere pericoloso e controproducente. Tutto quello che leggi (divagazione) è frutto di un sincero approccio con la delicatezza delle lettere e il suo potere, se vogliamo anche, occulto. Sì, le benevole e crogiolanti bio energie. Ma andiamo avanti con Ester. Bighellonavo con Alessandro, un mio amico, alla festa conviviale. Mucchi di genti fumava, beveva, parlava divertita alla ricerca del divertimento ultimo, senza fine. Cercavamo una stupida birra per intrattenerci e spezzare l'impatto granitico da nuovi arrivati. La mia fervida psiche si aspettava immense pinte ghiacciate servite da scattanti e simpaticissimi barman ma niente di tutto questo: file interminabili, tre punti beverage e un leggero fastidio alla fronte, forse dovuto a leggere gocce di sudore che mi recavano uno leggero strazio, una mezza tortura del mondano progresso fintamente godereccio. All'occorrenza Alessandro tergiversava proponendomi discorsi in cui infarciva filosofia ed esistenzialismo. Acconsentivo alla farcitura, pensando sempre al probabile sorriso di un barman e, quindi, uguale, - datemi una cazzo di birra - ma disfacendomi l'armonia del divertimento. Divertimento? Alla fine, dopo mezz'ora di nulla, decidiamo di buttare la nostra perplessità su alcuni bicchieri di vino rosso acquistati da alcuni ragazzi in vesti alquanto gaie. Una, due, tre alzate di gomito e il tramonto sulla festa si comincia a colorare di rosso, arancione, tutto prende costanza, forma: una culla in un vespro, in un tormento dolce.



Inaspettatamente e in controtendenza alla mia salubre condizione di balanzone ammanicato tra la folla e Alessandro, incontro lei, sì, lei. Vestita come una ragazzina dallo stile leggermente alternativo e un viso arrossato da troppo giorno. Rimango su un blocco di strada aspettando l'affermazione, la frase del secolo per innovare lo spazio tempo, per indurmi in tentazione ma sono imboscato, in me stesso. Lei, Arianna, la mia ex, reduci da oltre tre anni di relazione, arriva lì e sconquassa lo pseudo convivio festaiolo con il suo ghigno comunicativo, leggiadro e a questo punto mi perdo per poi ritrovarmi in: “Come siete seri? Eh, dimenticavo voi non frequentate tanto il sole” disse. Vabbè. Rimanere allibiti sarebbe poco. Immagino aridamente di sedermi, mi sento sommesso di fronte la sua compiacenza. Alessandro risponde facendogli notare che il suo alquanto carino abbigliamento simil liceale non è tanto in tinta tra i suoi rispettivi elementi. Lei risponde che alla fin fine non è un problema, ci si diverte. Forse ha ragione, tutto scorre, tutto continua. Mi ritrovo impiombato in questo idillio del contrario, sfoggio la mia amara educazione, il mio self control, mi gingillo fingendo di essere un uomo di altri tempi; mi affaccio anche sulla simpatia e ancor di più i bicchieri di vino gonfiano il sipario di questo alquanto estasiante teatrino. “Ti vedi con qualcuno?” dissi. “No. Ancora? Dai, Sergio! Che problemi hai?” disse. "Nessuno, volevo solo saperlo, così” dissi.  Fingevo poco interesse ma dentro me covava un uovo di un piccolo Alien; una smania di sapere al limite del paranoico. Uscivamo da due mesi, più o meno intensi, di riavvicinamento o di non so come definirlo: solitudine, nostalgia, qualche carezza, litigi minorati, gelosie di carta pesta, manie? Tutto era già bello che finito all'epoca, ma volevo ancor essere il suo Lancillotto con gli stivali più unici degli altri, lei invece ancora tergiversava su uno strano divertimento da torre di vedetta, aspettando la luna nuova e che la vecchia nebbia padana e pungente alle narici si diradasse per presentarsi su nuovi orizzonti. Come sempre la nebbia non vi sto qui a indicare dove andò a infilarmisi, ma siete lettori attenti e quindi capirete. Siete affabili, lo so.


 
John Everett Millais - The Long Engagement (1859)


Scrivevo di nebbia e odori pungenti, elementi pregnanti e basilari per la vista bucolica oltre la città di Golgogna. Suddetti tasselli fuori una certa ottica urbana mi hanno spesso rievocato il deserto o un deserto, la malinconia dei giorni uggiosi; e queste sensazioni accostabili all'immaginario, al mio, sono plasmati in una certa forma e forse continueranno a esser così, non saprei, ma a volte sono terribili e hanno il volto dell'abbandono. Salutammo con Alessandro la pulzella e andammo alla ricerca di noi stessi nel marasma del gomitolo festante. Giocolerie s'incontravano ludicamente sbilenche, scambi di sguardi alimentavano la nostra presenza in quel luogo, odore di hashish, bambini, genitori, cibi vegani, arrosto. Fu approssimativamente qui, tra ripetuti bicchieri e chiacchiere che scambiai le mie prime parole con Ester. Cercavamo entrambi da bere in una delle tante bancarelle artigianali ma era finito tutto e proprio su questo inconveniente approcciammo una timida conversazione: “É finito tutto, caspita” dissi. “Sì, è vero” disse lei. “Come si fa?” dissi. “Beh, se vuoi ho delle birre nello zaino” disse. “Ah, benissimo. Scusami, ma come ti chiami? “Ester!” rispose lei con il suo inconfondibile influsso francofono. “Ma sei italiana?” le chiesi incuriosito. “Sì, no, cioè sono nata in un paesino vicino Aosta”. Leggermente brillo, galvanizzato dalla sua aria gentile e dalla sua palpabile voglia di conoscermi le proposi di continuare la festa insieme. Da quel momento continuammo a vederci per mesi, alternando periodi di viaggi, visioni, sincera passione con tasselli dove, per personale accanimento, ci si allontanava per ritrovare “i nostri spazi”, colmati da frequenti e burrascosi riavvicinamenti. Peccato, direi oggi.



Era e fu, dopo, un periodo molto particolare della mia vita, dove mi ritrovavo, spesso e malvolentieri (?), senza un impiego e alla ricerca di una sistemazione. Tuttora la situazione non è che sia cambiata così di netto o verso quali splendidi orizzonti di gloria. Mi ritrovo nel giorno di Santo Stefano in casa completamente da solo, divorando ascolti musicali, leggendo “Cose delicate che ho affrontato dall'analista” di Matthew Klam e un saggio sull'immaginario alchemico su Jung, per poi dedicarmi a lunghe passeggiate fagocitato da personali aperitivi a base di birra o vino bianco. Forse tutto ciò non è un racconto, né un romanzo ma delle semplici memorie perpetue per un esercizio di esorcizzazione del mio quotidiano. A richiesta dispenserò le mie movenze, i miei scatti senza un significato alcuno. Polarizzerò la mia polvere di stenti, dove accudirò una mangiatoia intriso di bellezza etilica e con la fausta stupidità del folle consapevole, riderò sulle mie disgrazie. A volte, mentre scrivo, ho la sensazione, come quando passeggio spasmodicamente, di attraversare un non luogo polare, polveroso e freddo. Scrivere è un lento meditare ma se la sua passione è attanagliata da un marmoreo filo spinato, consegnando la nostra virtù e volontà a un astronauta persosi nel cosmo, la sua soave attività si trasforma in un gelato nelle mani di un clown decaduto steso al sol leone.
 


Datemi in pasto ai pesci tropicali, qui fa troppo freddo. Assaporare le fatidiche gioie dell’amore occidentale mi sfianca e assaporare questa notte, che sa ancora di donna, di Ester, mi rende malinconico. Sa ancora di parole, di cascate di parole, di pietre incastonate nel cemento del foglio o su un albero poco cresciuto. Sta qui il mio divagare, da una parte un piccolo alieno arguto che mi boicotta e dall’altra una volontà poco lucidata, consapevole di essere sempre presente nel gusto amaro di farla franca.

 

John Everett Millais - Il Penseroso (1887)


Dissi una sera a Ester che quello che ci dicevamo a vicenda andava anche bene. Era finita, anche se le nostre insicurezze non riuscivano a dimostrarlo del tutto. Abbandonarsi quasi completamente, prima di congedarsi per sempre sulla porta di casa sua, dopo le vacanze di natale, denotava un volersi ancora bene, un volersi ancora vicini. “Dove vai? Resta ancora con me. Non vedi che fa freddo?” disse. “No, devo andare. Basta, non sto più bene qui.” dissi. Dai, ti prego rimani ancora un po’. Non voglio farti male. Lo sai ho toccato un altro uomo, è per questo. Noi ci conosciamo nel profondo…” disse. Al solo pronunciare del verbo toccare, alla sua coniugazione in “toccato”, brividi profondi gelarono il mio già equilibrio in panne. Cosa vuol dire in questo ambito linguistico “toccato”? Cazzo! Hai toccato un uomo per la prima volta? Gli hai toccato il membro in erezione? Gli hai toccato la collezione di penne a sfera? Gli hai palpeggiato la malinconia? Misteri della fede gastrica e di Golgogna, questa città. Me ne andai e scomparvi, per settimane.

 


Come vada, è sempre andata. Come sempre, come mai. L’eterno ritorno della palude d’oro in cui sguazzare è sempre curioso, ti vive dentro come un virus. Ma la curiosità si fermava sulle rispettive esperienze, l’ho sempre fatto. Non era per forza un accanirsi, come poteva sembrare, ma una voglia di dare senso alle cose, al contesto. Che miserabile scopo può avere questo andare avanti e indietro? Ce lo potremo mai spiegare? Allo stesso tempo chi sono io per mettere giù quattro parole sprecate già da qualcuno? Infine? La risposta sta nel coraggio e nella volontà del deflagrare l’urgenza delle proprie istanze. Ester scomparì, come le altre. Come è ritrovarsi nulli quando una donna ha detto “addio”? Continuare, protrarre inutili domande da scolaretto infarcito di filosofia spicciola da bar intellettualoide? Ecco, fermati, barricate. Dovrei smetterla d’incoraggiare questo ometto impavido di brutture e battute mediocri, di storture grammaticali e morfologiche, questo “uomo senza qualità” che, dopo le varie vicissitudini di cui sopra, si ritrova alla veneranda età - di non stiamo qui a dirlo - senza lavoro o quasi, senza una donna o quasi, con la voglia di scappare dalla casa in cui vive e  - udite udite, udiamo udiamo - con soli quattordici euro nel proprio conto per circa dieci indimenticabili giorni avvenire. Ma stai sempre ad autocommiserarti? Non sempre. Scrivendo, però, ho la strana sensazione d’insieme come se me medesimo stia intrattenendo un rapporto speciale col proprio subconscio. È come ritrovarsi in una di quelle cabine per le fotografie formato tessera e scattarsi foto per puro diletto in una strana solitudine, possibilmente dopo essersi orgogliosamente agghindati per un rito onanistico di auto celebrazione vacua.



Tessere sbiadite e codici non così poi tanto cifrati attraversano la mia sorveglianza etica, non ingannandola, né tradendola così a dovere. Non ci si riesce a scalfirmi. Mi proteggo, io. La maggiore protezione mi deriva da una sottile o quanto meno raffinata interpretazione di apparenti appunti insignificanti, striscianti e al di fuori dello sguardo comune, ma pur sempre reali e oggettivi. La mia incespicante riflessione deriva da un fatto accadutomi pochi minuti fa. Mettiamo in chiaro un attimo le cose: dove cavolo sei? Cosa vuoi comunicare? Che ti è successo? Vi chiederete. Questo pomeriggio, risorto dalle fredde ceneri di un sabato ieratico, ripenso tra me e medesimo di auto organizzarmi una personale passeggiata, tra l’utile e il dilettevole, in centro qui a Golgogna. Tutto normale, da routine, quasi bello, meraviglioso. Tra un panino al formaggio di dubbia qualità, passaggio rituale contemporaneo allo sportello bancomat della banca di sfiducia e biblioteca accade qualcosa che presentivo vagamente, incontro…Incontro? Ah, sì, ci sono, suvvia. Ehm, ok, ci sono, mi ritrovo davanti… Ester. Ci vedemmo quella sera. Fu come entrare allo stesso tempo liberato e legato dentro un oceano divagante. Più che una prova da sensitivo in odor di macchietta, era un affaire, della serie “vorrei giocare a nascondino” con i miei stessi sommovimenti interni. Ma l’antenna era connessa sulla frequenza umanoide ma i dati erano sbiaditi e l’inghippo, e questa, credevo, era la ciliegina sull’Everest, stava su due direttive: ricevevo male i dati tramite la decodificazione, forse in avaria, o la strumentazione in toto era essa stessa nella stessa identica avaria, situazione. Interpretare era il focus, era il nucleo, i dati x si coagulavano sui frammenti del guscio, come granchio gentile, di un cuore coraggioso. La cieca razionalità mi sviava, pezzetti del qui assente ricevevano pacchetti all’apparenza orbi, in panne. Dalla casa madre arrivavano in stock calibrati tronfi aggeggi per congestionare la comunicazione con il lander che doveva lasciare il pianeta. Pezzi finiti, in sintonia con la risoluzione della debacle in funzione, qui e ora, interna. La penna, la mia, è una ed è servile, schiava, sottomessa al mio prendermi e prendervi per i fondelli. Non sono io, è un imbarazzo, preso forte e duro, dentro un organismo, in un pieno di questi artifici orifizi continuo nell'autoproclamazione.



John Everett Millais - Mariana In The Moated Grange (1850-1851)


È nell’atto della fine, nel riconoscersi nel suo attimo ultimo che in controtendenza di varie, svariate e imprecate previsioni tutte le migliori essenze e sostanze legate al bene, al sentire vengono su e si depositano in un contenitore psichico lasciato chissà dove. L’amicizia diventa fratellanza, il sesso diventa amore, una riunione diventa comunità. Dentro questa pellicola, un po’ da restaurare, si susseguono, una per una, ma accavallati come tori in una furia quasi disperata, questi sentimenti protetti, vacuamente, dell’informità. È leggera consistenza di colore, di ritmo sincopato sorreggente la base percussiva di base. È dolore per l’essenza, dell’essenza. Una malinconia che ritorna in lei e per lei. Questo apparente eterno sentire in un cupio dissolvi mette in ghingheri questa riottosa anima, segregata dentro un barattolo di gel da supermarket di periferia. Proclama l’ora cruciale e sapevo sarebbe arrivata. È qui, nella necessità trasformatasi in virtù: obbligatoriamente, fisiologicamente.



Da piccolo stavo ore e ore a osservare la fauna marina, sia introducendo il mio nuovissimo corpo in quel mare di ricordi sia come provetto archeologo di chissà quale storia a me ritenuta fantastica, osservavo sulla battigia o nelle vicinanze più nascoste e avventurose, di chissà quali spiagge, specialmente i granchi. Li ritenevo delle creature tendenzialmente indifese, ma abili e furbe, però con quel guizzo robusto, allo stesso tempo buffo e anche un po’ guerrafondaio, forse dovuto alla loro estetica corporea. Quelle chele, unite a quel corpicino solido, alimentavano in me un arzigogolato fantasticare, erano compagne di un gioco intrinsecamente privato dove io e la struttura del granchio - il mio amico granchio - eravamo alleati in un giuoco di reciproche conoscenze e difese esoteriche. Come se questo pezzo di natura potesse recarmi della tenue speranza per la mia futura esistenza. Un incontro di sguardi a modo nostro e di telepatia. Non ho più rivisto quel granchio e quel gioco si è trasformato in ben altri mondi ludici, più obbligati e corrosivi. Mi manca Ester, mi manca qualcosa, mi manca il mondo. Un certo mondo. Un mo(n)do di vivere certosino dove specchiarmi e far specchiare.


 

- Sentire, lottare, amare, empatizzare. Nessuna resa. –


 

Reco il mio saluto momentaneo a Golgogna in maniera al quanto strana: pochi soldi, lascio casa “mia” anche per scelta personale e dipartita definitiva con Ester. Reset. Ho pian piano imparato dai vari aggiornamenti dal fronte in tutti questi anni, che certe “disgrazie” e avvenimenti nefasti ne porteranno ben altri decisamente più proficui e interessanti. Rimanerci male è un retrogusto retro-cesso, un fondo di bicchiere, un’abitudine, ma credo se ne esca fortificati con in mano un senso più che solido ma difendendosi sempre più accaniti dall'orrido. Sento, però, nell’aria questo spettro di presa in giro, d’inganno. Che senso hanno oggi concetti, racchiusi in banali frasi di circostanza, come: “Ti voglio bene”, “Stammi vicino”, “Non ti preoccupare ti aiuto, stai con me” se tutto poi si dilegua nebbioso nel caso e nel silenzio delle nostre comunicazioni? Ditemelo. Ma pian piano la mia forma di adulto avanza negli anni e più certe risposte si disvelano, o apparentemente fanno finta di esserlo, mi reco verso Noi(A) e il paradiso è ancora lontano un miglio. In un orizzonte nuovo e fluttuante. E meno male.



giovedì 24 settembre 2015

Stefano Pilia - Blind Sun New Century Christology (Sound Of Cobra Records/Tannen Records)



Per chi conosce artisticamente Stefano Pilia affiliato a band e progetti (Massimo Volume, In Zaire, Cagna Schiumante, Afterhours, Il Sogno Del Marinaio) o soprattutto, ma puntualizziamo il soprattutto, il Pilia compositore cordofono sperimentale in solitaria, un'opera come questa potrà risultare meno in “linea” o meno “derivativa” rispetto le sperimentazioni avant-ambient o free form del passato: possiamo citare su tutte “Action Silence Prayers”, uscita per la Die Schachtel nel 2008. 

Però, prendersi la responsabilità di codeste affermazioni trova la sua radice ultima nell'intenzione del musicista di coaugulare, nei vari pezzi dell'album, il proprio e vasto background musicale; come a tessere un piccolo grande bozzetto, potremmo scrivere manifesto, di varie influenze e idee per lo più pregevoli e di elevata caratura seminale. Già a partire dal titolo, e che titolo, con “Blind Sun New Century Christology” ci si affaccia d'avanti, come in uno specchio, un immortale desiderio intimo d'iniziazione, di mistica, di riscatto e di una nuova fede per un rinnovato umano ri-trovarsi.

 Per dare il via a cosa potremo ascoltare, immaginiamo un certo John Fahey e un certo Blind Willie Johnson (la Dark was the night, cold was the ground è una rivisitazione di Stefano) trovarsi insieme a comporre, in un Gestemani paradisiaco, un'ultima e definitiva piece monumentale di american primitivism guitar, mentre un Loren Mazzacane Connors dal sorriso beone prova a ristorare la composizione con aeriformi note di chitarra elettrica mentre appare alla madonna dei suonatori. 

Sarebbe facile e sbrigativo descrivere l'opera solamente con questo idilliaco quadretto. Ecco, abbiamo citato Johnson precedentemente. Perché anche non citare un altro gospel bluesman, all'anagrafe Washington Phillips, autore della splendida “What are the doing in heaven today”, suonata in chiave strumentale nel disco? Fatto. Da qui potremmo pensare erroneamente che l'album in questione sia un tributo più o meno esplicito al blues del Texas o all'american primitivism. Nè un sí né un no, in medio stat virtus in questo caso.

 A dar man forte alla nostra piccola tesi troviamo pezzi come “Blind Sun”, e come no “Blind Moon”, che ci ricordano come l'eredità di certo kraut più delicato (Popol Vuh su tutti), in uno sposalizio estatico post rock, possa essere rimessa in luce in maniera pregevole e dritta verso il cielo in soli tre minuti di trasfigurazione dal monte Tabor. “Getsemanhi Crickets Night Air” e “The Cross Peregrin Falcon N.C.” ci ammantano di profonde tassellature di note, carillion che escono da preghiere laiche, parchi malinconici dove bambini giocano, ripensano in slow motion. “Stand Behind The Man Behind The Wire”: l'unione, appare, scoperchia le ferite. Sole-Luna e tra la loro “distanza” alchemica ci siamo noi: Uomo-Donna, gli apotropaici ascoltatori per un nuovo secolo, per una vita nuova redenta.


Stefano Pilia ci dona un oggetto nascosto di una consolazione dimenticata, malinconie di essenze presenti, polveri di pensieri sinceri trasmigrate in lande dove l'avanguardia non è più utopica cecità ma è dolce, amica, esorcizzata.  


 




domenica 11 gennaio 2015

Questioni vecchie, argomenti di un certo anacronismo, sballo, vetriolo.


Questo pomeriggio, in preda a una noia terroristica, decido dopo mesi di titubanza di farmi un giro, che ha del masochistico, attraverso alcuni video musicali su una piattaforma famosissima dell’internet internazionale. I video in questione rappresentavano blasonati, carini e ben vestiti gruppi “indie” della nostra cara nazione al centro del mediterraneo. [Respirare a pieni polmoni]. 


Dopo alcune visioni portentose scelgo di focalizzare la mia attenzione su un video di un gruppetto marchigiano con tanti like su faccia libro, tipo duemila e qualcosa, un bel sito e un album uscito l’anno scorso.  Un confettino.


Ma torniamo al video e alla cinematografia immortale. I componenti del gruppo, quattro, erano immersi in un'atmosfera urbana super bella, col capello laccato, i vestiti di tutto punto. Si passa poi dalla strada ad un locale simil vintage hipster. Oddio. Colori troppissimo giusti, fotografia troppissima giusta, nessuno scarto alla norma. Ombrellini, ragazze, canidi.


 Ma qui attenzione si vola: il gruppo fa finta di suonare strumenti invisibili dentro il locale, attori e comparse divagavano di qua e di là cercando di dare, sotto l’occhio vigile del regista, una parvenza di senso artistico al tutto e successivamente il protagonista insieme ad altri battono macchine da scrivere invisibili dentro quello che dovrebbe essere un ufficio. Un tripudio.


 Comunque sì, diciamolo, perché se no ci si perde, il video dovrebbe raccontare in pochi minuti la storia di un uomo contemporaneo che vive la sua vita liquida contemporanea,  dentro una città contemporanea, nel post di una relazione sentimental contemporanea. Quindi: sveglia, bar, lavoro, sport, struggimento ecc, ecc.  Cioè, almeno è quello che ha capito il mio cervello in eccedenza di serotonina. 


Attenzione, attenzione però: musicisti italiani che cantano in italiano. Così, tanto per dirlo. Bene, rimango ancora concentrato per dedicarmi all’aspetto musicale. Tutto scorre, tutto va, non voglio dire dove e ci si becca strofa, ritornello, strofa, passaggio ponte effettato, che fa tanto “senti guarda sto shhperimendando”, e sezione finale, più o meno uguale al ritornello, e il pezzo si chiude, il video finisce.

  

Rimugino sul testo e anche in toto. Mi dico: dai, c’è dell’impegno, avverto un nonché di naif, si respira un profumo di sala prove di provincia, dai di contenuto, o’ per bacco di messaggio. Mi sfianco. 


Ho una leggera debacle con me stesso e porca schioppa alla fin fine mi sorgono delle domande e scusatemi se è poco: ma i musicisti saranno mai all’altezza dei loro testi? E’ posa, è retorica, è pura letterarietà? C’è della critica sociale?  Non lo so. Non vengo sopraffatto da nessuna sensazione in particolare, rifletto ancora. Mi applico ancora cinque minuti ma niente e per passare l’impasse decido che scriverò sta stronzata e raggiungo il verdetto: il pezzo e il video non mi hanno trasmesso nulla. Nessun punctum.


 L’unica cosa che ricordo è un senso di vuoto e qualche sprazzo del testo che non rimembro neanche benissimo, diceva più o meno: “viviamo parentesi di frasi senza apostrofo”, “siamo vite come spezzoni tagliati di un film”. Avrò trascritto male sicuramente, chiedo venia. A questo punto come fosse legge di natura dovrei continuare a scrivere qualcosa ma non lo faccio, no. 


Aggiungo infine soltanto che il gruppo dovrebbe tramite il video, l’album e la canzone testimoniare, con le note dei loro strumenti nel cielo della creatività dell’infinito, quello che “loro stessi" scrivono sul loro sito: “Cieli coperti su spiagge di bagnanti. Il senso d’impotenza di una generazione, come un forziere di contanti di una valuta non più in vigore. La mutezza dei monumenti e dei centri storici, baluardo di una tradizione svuotata di storia e memoria. E poi la disperata ricerca di autenticità in rapporti sempre più sfilacciati, minati da una precarietà geografica ed esistenziale senza precedenti.


Certo.


Ah, il (non) suddetto gruppo (i Lettera 22), pardon, condivide un’omonimia con un duo noise drone anch'esso italiano. 


Riflettere, riflettere, riflettere, se vi pare.


martedì 9 dicembre 2014

Non posso dirti tutto


Ricongiungere alcuni collegamenti ad una ragnatela appartenente al mio vissuto dovrebbe essere lieta novella. Sbattere, capire, farsi male. Rendersi conto di alcune cose velate che stavano o stanno lì a formare, stoltamente, un uni-verso dei fatti è una vittoria quasi silenziosa. 


Liberare gli altarini e gli scheletri negli armadi dalla stantia e "santa" processualità del “doveva andare così”, meraviglia tra le righe delle rovine. Le cose, a volte, non avvengono così per caso; soprattutto quando si è in pochi. Quanti? Cosa? A volte piccoli dettagli, minuziose “sciocchezze” possono rivelare e rilevare pezzi organici di qualcosa che è andato perso in giro, molte delle volte con una, quasi, chirurgica volontà di occultamento.


 Steps, passi in adagio, fatti uno alla volta nel procedere del tempo vacuo, nebbioso, quasi inesistente ma presente e lineare, che asseconda. Nel bene e per bene. Poi, ma senza un ordine e un invito,  arrivano i personaggi inesistenti senza portafoglio, o almeno credono il contrario, di un’altrettanta telenovela inesistente. (Sorriso di circo-stanza). Borbottano, consigliano, cincischiano di doveri, diritti, visioni, problemi. Il problema è che alla fine rimangono solo i fiocchi e i proclami, le belle facce, i buoni e comodi propositi inamovibili, la noia e il premio di maggioranza. 


Con meno solitudine in giro e con la leggerezza di un “semper parati”, scene da innominato matrimonio si ripetono totalmente tutte uguali ma con la peculiarità di essere tutte dentro una vasca per pesci su un piedistallo. E’ tutto ovattato,  immemore e bellissimo. Ma tutto procede e per benino, come se no. Rimane e basta la curiosità, la mia ed edifica. Rimane grata alla voglia di mettere le cose al posto giusto senza steccati e bla bla bla didattici perché il tutto è sovrapponibile parallelamente, ma non per oscurare, bensì per donare trasparenza. 


Ma prima di tutto ci fu il silenzio, la speranza, la fiducia, le responsabilità ma era uno sbaglio o forse sembrava fosse così. Sembra finto oggi, sembra che il nulla, in istantanea.  Si appostano i  venditori di palloncini, cambia la musica, si obietta per difesa il passato. Cadono i muri, cambiano le politiche, ci si deve adattare per “il nostro posto nel mondo”.


 “Non posso dirti tutto” disse anche.