Abbandonate o per lo meno accantonate - con o senza ovvietà d'intenti - le influenze di Sonic Boom (Spacemen 3, Spectrum) e le chitarre, qui o là, alla Sonic Youth del precedente disco “Our Secret Ceremony” (A Silent Place – 2009), i Julie's Haircut ci ripresentano un altro straordinario lavoro di gnosi sonora che ripercuote - diligentemente - la cifra preziosa dei precedenti lavori – da citare anche “After Dark, My Sweet”(Homesleep – 2006) - come a tessere e (in)seguire un percorso legato sì alla ricerca di paesaggi nuovi, ma anche dalla voglia di elevarsi e superare sempre di più il proprio orizzonte di crescita come gruppo, anzi collettivo.
Questo Ashram Equinox - ricordiamolo, quasi privo della parte vocale, ad eccezione di alcuni cori - pulsa e medita allo stesso tempo. Difatti, gli ashram nella tradizione spirituale orientale - eremi dalle nostre parti - sono luoghi di meditazione e riflessione per maestri e saggi dello spirito. Ecco. Una ricerca nelle luci e ombre dello spirito e per lo spirito dove i mantra che ci conducono verso l'illuminazione e un oltre sono decantati dal libro del krautrock più elettronico - e meno motorik rispetto al lp scorso - dove tra le pagine possiamo, difatti, citare Klaus Schulze, Tangerine Dream, scuola di berlino su tutti; ma leggasi anche tra le righe progressive elettronico come iVangelis di “L'Apocalypse Des Animaux”. Tuttavia s'inserisce e stratifica ancora una volta il tutto una certa psichedelia spaziale dronica e, definiamolo così, anche un siffatto ambient carillon del quarto tipo.
Ma non è tutta gnosi e meditazione a ben ascoltare. I pezzi si compenetrano - a sottolineare il concept che sta dietro il disco - anche attraverso efficacissimi e a tratti intricati pattern di batteria pulsanti - appunto - aventi a che fare con un tedesco chiamato Jaki Liebezeit, il poliedrico batterista dei Can. Sì, l'influenza degli anni dei capolavori (Tago Mago, Ege Bamyasi) della band di Colonia è parecchio presente, eh sì, ma non totale. Non a caso esiste un pezzo di quest'ultimi chiamato “Vernal Equinox” presente in “Landed”. Sarà un caso la quasi omonimia (?). Una influenza resa anche non a tutti i costi retrò e scontata data la presenza di certe morbide folate post-rock e certa neo-psichedelia (Mercury Rev, Flaming Lips), tessiture etno-orientaleggianti trasognate e un uso – non dichiaratamente vintage - dei synth che difficilmente non potrà non lasciare traccia all'ascoltatore.
Comunque, un disco estatico, propiziatorio, a ben vedere, forse, il capolavoro della band di Sassuolo. Un progetto, il loro, dove la commistione di generi e suoni non ha avuto mai alcunché di altezzoso ma, anzi, sincero dove elegantemente si sono congiunti e si congiungono peculiarità specifiche d'immersione dal pop-rock, al funk, al garage-rock e a quest'ultima psichedelia cosidetta “occulta” - se vogliamo, ma anche non troppo - verso montagne jodorwskyane. Un consiglio per l'ascolto: Turn on, tune in, drop out; bè, ancor meglio senza “drop out”.
Si chiamava “Hypnagogic Visions”
l’ultima uscita discografica dei Rev Rev Rev, uscita nel settembre
del duemiladodici, e già un titolo così non può non esserci da
piccola traccia per un percorso musicale di cotanto valore e
spessore. Ipnagogico, sì, e soprattutto visioni ipnagogiche sono uno
strano fenomeno legato al sonno e nello specifico ad alcune
allucinazioni spaventose che attanagliano il dormiente. Esatto,
ritroviamo in un sol concetto paura e sogno come nel suono dei
suddetti dove stanno a presenziare shoegaze psichedelico d’impeto
sognante e un certo noise sonico disturbato e deflagrante.
Due
elementi ben amalgamati nel loro ultimo album omonimo “Rev Rev Rev”
(The Orchard) in cui la fa da culto quel fenomeno che tra fine anni
ottanta e primi anni novanta sconvolse la terra d’Albione da
Glasgow a Londra. I riferimenti all’album, e innanzitutto allo
stile del gruppo, vengono su come funghi. Impossibile non rimanere
piacevolmente affascinati da reminiscenze che ti riportano alla
mente ascolti che fanno capolinea ai Telescopes di Taste, ai My
Bloody Valentine, ai Loop meno in acido nello spazio, ai Ride e
certi Pale Saints.
Sarebbe superficiale, se nonché limitato, non
mettere anche nero su bianco l’influenza puramente noise della
gioventù sonica, quel certo gusto revival che sta alla voce
neo-gaze di questi ultimi anni e ovviamente, su tutto, un’originalità
personale d’importazione estera ma che non sfigura in lande
italiane, ma anzi è emolliente per una scena fin troppo
autoreferenziale. Un lungo esordio graditissimo.
Non
inizierò questa recensione encomiando i soliti triti e ritriti
leitmotiv della Seattle d’Italia o della Milano del sud. No, per
favore, basta. Catania non è mai stata tutto questo o per lo meno,
tirando fuori questo argomento, non se ne faccia una puntata da
telenovela sudamericana perché quest’ultima sarebbe stata meno
imbandita, con molto meno insistenza, di certi stereotipi ripetitivi.
E va beh. Sono state soltanto, senza maldicenza, “leggere”
dicerie messe in giro da qualcuno, per metter su una discussione
tormentone per ragioni, diciamo così, turistiche, di hype visivo, di
vendita o di attrattiva su certe realtà musicali pur sempre
meritevoli. Ecco, non me ne frega ora e non me ne fregava neanche
prima, di codeste definizioni. Finalmente l’ho scritto e che
sollievo, ah. La figlia del Mongibello è stata un’altra cosa, una
cosa a sé. Come tutte le cose, bene o male, vissute o che vivono in
certi ambienti.
Da
queste poche ma importanti premesse vorrei introdurvi a un disco, un
nuovo disco, uscito a marzo del duemila tredici. Il disco in
questione è “Progressive In My House” dei deMANAGERS (scritto
proprio così, eh, non ci confondiamo). Questa chicca tutta sicula,
etnea, si fa per dire, esce per l’eclettica Edwood Records e per la
palermitana Succo Acido Label. Entrambe etichette di valore,
impegnate nella promozione di band al di fuori di classiche vetrine e
boriosi cliché sonori. Quest’ ultima, con la rivista Succo Acido è
anche impegnata nel campo dell’informazione culturale e di circuiti
artistici altri. Dategli un’occhiata, ne vale.
Bene.
La band registra tutto in modalità do it yourself e fa di necessità
virtù. Possiamo ammetterlo perché il disco ci porge all’udito un
circuito nostalgico. Un cerchio che si chiude: dei ricordi. Una
generazione? Comunque, quattro baldi giovani, orgogliosamente amici,
si ritrovano in una casa a registrare e l’avventura del disco
parte. Parte , e sì, ma da non molto lontano. Avete presente i
Clinic
alla loro prima avventura discografica? Il (Post) grunge e certo
noise ruvido (Progressive
In My House)?
I Brainiac
che suonarono in una calda notte d’estate anni novanta a Catania
(William
Blake Blues)?
Ecco, basta. E’ tutto qui, forse, quasi.
Infatti,
dicevo, quasi. Difatti, mi sa che uno o più di uno dei baldi giovani
sopracitati ha o aveva una certa predilezione per la break beat old
school, il dub o, forse, certa drum ‘n’ bass. Dai, sì, possiamo
dirlo: Elettronica. Sì, anzi, ne sono quasi più che sicuro. Ed
esattamente lo si evince, spero di non sbagliarmi, da pezzi come
Boogie
Bass e
Sharing.
Pezzi dove fa da padrone anche mister synth. Ma vorremmo
dimenticarci, azzolina, di certo punk-blues anni ottanta con accenni
garage (HeavyMetal
III)? E
ancora: del synth-pop sghembo e del post-punk magaziniano (A-ssolo)?
Certo,
è anche apprezzabile ammettere ,ancora, che tra le righe soniche del
disco si riesce anche a captare il lo-fi seminale dei Pavement
e non così proprio al volo, infine, l’influenza sotto le pieghe
della voce di certi Mark
Linkous
(Sparklehorse) e J
Mascis
(Dinosaur Jr) e permettetemi l’azzardo, gli Yuppie
Flu da
versante pop. Sentire la conviviale e divertita Pretty
Rose,
prego.
Voi
direte: tutto qui? Si,
proud Rock against the modern times.
Ribolle di un'entusiasta volontà di
potenza questa nuova uscita firmata In Zaire, gruppo eclettico e
votato allo sperimentalismo formato da Alessandro De Zan (voce, basso, percussioni), già Orfanado; Riccardo Biondetti, G.I. Joe insieme al De Zan e big master presso la Sound Of Cobra Records; Claudio Rocchetti (elettronica), dj, rumorista, 3/4 Hadbeebeliminated e Stefano Pilia (chitarra), già Massimo Volume, Il Sogno Del Marinaio con Mike Watt, 3/4 Hadbeeneliminated che dopo
varie uscite in forma di live, split, ep e allargamenti di line-up ci
concede l'onore di venire a contatto con il loro primo lp d'esordio
iniziatico, White Sun Black Sun, un disco amuleto ritrovato in
un'Africa tribale, siderale e meditativa.
Un album di ricercata psichedelia
battente e dura, con copertina eccezionale di Fred Par Kraat, dove il
kraut dei Neu!, degli Agitation Free e dei Can si pone in un
intrecciato contatto/contrasto con i riff cavalcanti e sporchi di
Detroit, come se certi Stooges alternassero sesso tantrico e violento
con gli Ash Ra Temple e con alcuni Hawkwind in volo space hardelico
durante uno dei loro live più ispirati.
L'atavico maelstrom sonoro dei nostri
musicanti non si può certo compendiare in due righe e, difatti,
freme anche di paesaggi dub lisergici, di garage e funk acidi e di
una destabilizzante rumoristica spaziale come se ognuno dei corpi
celesti, menzionati nei titoli dei pezzi, volesse dialogare tra loro,
tra tensioni rumoristiche e commiati elettrici, in una spaziale
girandola narcotica al ghiaccio bollente.
Preziosa gemma tutta italiota,
incastonata in una propria direzione deviante, che continua e
continuerà a far risplendere se stessa e il già avviatissimo
movimento (?) psichedelico occulto italiano. Un condotto sonoro per
la (ri)scoperta di altri suoni e itinerari, con precise informazioni
per viaggi divinatori verso lo spazio profondo e dentro vari e,
soprattuto diversi, microcosmi psicotici. Datecene ancora. sun, sun,
Sun!
Avevamo lasciato Atros
(Bassi), componente anche degli X-Mary, e Lenny L. Kandur Layola
(Tamburi), altresì Lucifer Big Band, con un ep registrato tra
quattro mura di casa a Lodi, intitolato “TGS/Lucifer Big Band”
(2012) e un interessante precedente “Delay Jesus ‘68” ep
(2011): un titolo come dichiarazione d’intenti Can-iana, un tributo
alla psichedelia in accezione più avant, un panzer immerso nelle
nuvole, guardandole
(Delay Jesus '68).
Comunque, come non
detto, tornano i The Great Saunites con The Ivy, e alla grande.
Eccoli di nuovo qui, con massicce e introspettive visioni, tra ben
amalgamati locomotori senza sosta di heavy psichedelia kraut rock e
un afflato sognante; immersi in una nebbia di tastiere e organi, nei
bassi filtrati al wah wah, in chitarre volanti e stratificate (la
suite The Ivy), in
pezzi pseudo folk un po' bucolici e un po' chimerici (Ocean
Raves). Ci accingiamo a navigare in una
trance estatica, a tratti monolitica, quasi cosmica. Gli Om più
pestoni incontrano i Motorpsycho dalla fisionomia lisergica
(Cassandra), i Pink
Floyd direttamente da Shine You Crazy Diamond si coagulano con un
certo stoner acido statunitense (Bottles&Ornaments).
L'album, prodotto
collettivamente da un insieme di etichette fra le più audaci del
territorio italico, registrato, mixato da Luca Ciffo (Fuzz Orchestra)
e masterizzato da Riccardo Gamondi (Uochi Toki, La Morte), ci
tramanda un' essenza sonora profonda, mistica ma che fa partire le
proprie istanze (leggasi basso e batteria) da un pianeta tribale,
magmatico, ma che dona il proprio estro in note a madonne pagane
nell'iperuranio (Medjugorje).
Una goduria per i nostri padiglioni auricolari. Un altro
piacevolissimo pezzo da incorniciare nel già ampio e prospero
movimento psichedelico italiano di questi ultimi anni. E grazie, si,
grazie a queste opere (si potrebbero ri-citare i lavori de La
Piramide di Sangue, In Zaire, Squadra Omega) che il sottobosco
musicale ribolle di una forza mesmerica e ammaliante che fa ben
sperare, per l'ennesima volta, l'orizzonte sonoro italiano. Voilà.
Un graditissimo ritorno, orgogliosamente italiano, questo degli Edible Woman, trio nato nel 1999 e attualmente formato da Andrea Giommi (Basso, Voce), Federico Antonioni (Chitarra, synths, tastiere) e Nicola Romani (Batteria).
Dopo le divaganti e allo stesso tempo dirompenti atmosfere noise e psych-kraut di “Everywhere At Once” (2010) – Sleeping Star/Self, si riaffacciano con “Nation” (Santeria),in distribuzione italiana con Audioglobe e per il territorio europeo con la stimatissima Rough Trade, importante biglietto da visita che potrà servire da traino per un’auspicabile affermazione nel mercato britannico ed estero. Con questo full-lenght, prezioso e poliedrico, suggellano per la quarta volta una già interessante carriera tra proseliti noise/hardcore di Chicago, post punk, respiri psichedelici e arguti sentori krauti.
L’album in questione è stato registrato in presa diretta da Mattia Coletti ai Vacuum Studio di Bologna e masterizzato da Riccardo Gamondi (Uochi Toki, La Morte). Da notare che la presenza del Coletti non è nuova in fase di registrazione per il trio di Fano, difatti, anche nel precedente album il trio-gruppo-band si è avvalso della sua presenza; qui, oltre una semplice collaborazione da studio, vi è aria da sodalizio tecnico.
Questo nuovo lavoro non prende eccessivamente le distanze dai precedenti tasselli discografici, niente di male. E’ presente, però, una nuova apparente sensibilità compositiva e novelli propositi rispetto al passato. Una personale magia ermetica che erompe, infatti, dai suoni dei singoli componenti , (suoni spigolosi, profondi, vellutati) con una capacità di compenetrarsi tra di loro non affatto indifferente. Un reparto di suono, che come puzzle ordinato, batte echi di post-punk, dove i Clinic più psichedelici del primo periodo incontrano Ian Curtis dentro la divisione della gioia in cui, per l’appunto, i Sonic Youth hanno appena ultimato un concerto. E scusate se è poco. E’ anche presente, oltretutto, una sottile e ferrea voglia di far spiccare un messaggio sociale, forse politico, ma è comunque un messaggio, importante; e cioè, semplicemente: viviamo in un sistema malato? In una nazione malata? Il nostro io umano è malato? Tutto o forse nulla, ma comunque qualcosa di marcio c’è, una deformazione sociale, un carcinoma eletto, uno specchio sociale dove, forse, si riflettono zombie e mostri.
In ogni caso, una nuova e aggiornata prospettiva per la band. Prospettiva in cui “alzare il tiro” avrebbe giovato di più ad alcuni passaggi dei pezzi e per quel puzzle , di cui sopra, che forse , si sente un tantino tirato a lucido per le feste. Ma sono feste sagaci, orgogliose, negli addobbi e nei contenuti, dove una band, gli Edible Woman, dirige danze ed emozioni .